Parole come “emergenza climatica”, “transizione ecologica” e “sicurezza energetica” costituiscono parte delle espressioni utilizzate quotidianamente da giornalisti, politici e attivisti per il clima. Seppure sia accertato che il Cambiamento climatico è in atto ed è “antropogenico”, cioè provocato dall’attività umana, ognuno di questi soggetti utilizza tali parole in modalità differenti, creando così narrazioni che corrono parallelamente. Tali narrazioni talvolta si contrastano e rischiano di rallentare la lotta ai cambiamenti climatici. Di certo però il tempo per l’azione pubblica nella lotta ai cambiamenti climatici si restringe ogni giorno sempre di più, rendendoci vulnerabili e fragili ai loro effetti: siccità, alluvioni, perdita di biodiversità, migrazioni ambientali, estinzioni di massa, acidificazione degli oceani, crisi dell’acqua dolce o erosione del suolo.
In un contesto di questo tipo ci si domanda se gli Stati, caratterizzati da un crescente sentimento nazionalista, siano in grado di affrontare questi problemi e di trasformarsi in un veicolo per il cambiamento. Su questa domanda si interroga Daniele Conversi, Professore ricercatore all’Università del Paese Basco (EHU) e presso la Ikerbasque Foundation for Science, nel suo libro “Cambiamenti climatici. Antropocene e politica”.
Il rapporto tra antropocene e politica: sintesi del volume
Il volume “Cambiamenti climatici. Antropocene e politica” esplora la relazione conflittuale tra l’emergenza climatica e la realtà geopolitica degli Stati-nazione, imperniati sull’ideologia del nazionalismo. Il punto di partenza della discussione è un dato di fatto: i cambiamenti climatici sono in atto ma spesso i negoziati internazionali sul clima si concludono con fallimenti o il raggiungimento di traguardi parziali. Più precisamente, concedendo fiducia ai meccanismi internazionali, si potrebbe dire che il tempo della politica internazionale non coincide con il tempo, sempre più stretto, per contrastare i cambiamenti climatici.
Nella prima parte del libro l’autore analizza il problema dei cambiamenti climatici da diverse angolazioni. Fornendo in primo luogo evidenze scientifiche dei cambiamenti climatici, successivamente indaga “l’imperdonabile ritardo delle scienze sociali” e, in generale, la lenta risposta dell’azione collettiva. Di fatto, nonostante gli sforzi del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC) nel fornire informazioni utili per le scelte politiche e l’orientamento dei cittadini, per lungo tempo vi è stata l’assenza di un linguaggio comune tra le diverse discipline scientifiche che hanno impedito una maggiore diffusione delle conoscenze raggiunte. Proprio le scienze sociali, che spesso si trovano in dialogo con il decisore politico, sono state inizialmente titubanti, restie e lente nell’incorporare i nuovi dati. Ciò sembrerebbe richiamare, come fatto nel libro di Daniele Conversi, la metafora della “rana bollita” resa celebre dall’ex vicepresidente statunitense Al Gore Jr. La metafora raccontava di un gruppo di rane immerse in un grande pentolone di acqua fredda che viene fatta lentamente scaldare fino all’ebollizione, per cui inizialmente non si accorgono di essere bollite vive e, quando se ne accorgono, non hanno la forza per uscire. Tale metafora rappresenta bene il torpore da cui siamo chiamati a svegliarci collettivamente. Fortunatamente l’autore nota che l’interdisciplinarietà dei saperi si sta rendendo la protagonista di un cambio di paradigma nell’analisi dei cambiamenti climatici .
In maniera innovativa, la seconda parte del libro affronta il problema della divisione geopolitica in Stati-nazione e dei cosiddetti “nazionalismi incrociati” che, fino ad oggi, hanno impedito la cooperazione internazionale nella lotta ai cambiamenti climatici. In particolare il quarto capitolo, aprendo un interessante percorso di ricerca, si interroga su come gestire la pervasività del nazionalismo e come convertirlo verso l’azione per il clima.
Cosa stanno facendo i Governi per il clima?
Come rilevato dall’autore, la politica di oggi ruota attorno a un paradosso: mentre il nazionalismo pretende di difendere e salvare le nazioni, in realtà crea la loro lenta eclissi. Per analizzare il rapporto tra nazionalismo e cambiamenti climatici vengono presentate due modalità: il “nazionalismo delle risorse” e il “nazionalismo verde”.
Il “nazionalismo delle risorse” viene definito come una forma di retorica nazionalista che sacralizza le risorse nazionali radicate nel sottosuolo come “bene comune”, anche se solo una piccola minoranza della popolazione può trarre beneficio della loro estrazione e sfruttamento. Talvolta questa tipologia di nazionalismo suscita una spinta al controllo delle risorse naturali situate all’interno del territorio nazionale, soprattutto quando i governi si appropriano dei giacimenti di combustibili fossili, spesso in sincronia con gli interessi delle multinazionali.
Come ogni nazionalismo, questa tipologia crea una differenza tra la narrativa e la realtà sul campo poiché esistono molte aree e regioni da cui vengono estratte le risorse che sono le più gravemente danneggiate dal punto vista ambientale e le meno beneficiate dalle politiche estrattive. A ciò si aggiunge che anche la lotta per la giustizia climatica, e quindi l’opposizione locale, subisce accanite forme di violenza e repressione.
Su Large Movements abbiamo parlato del caso della regione del Delta del Niger, uno dei 5 ecosistemi più inquinati del mondo a causa degli sversamenti di petrolio che colpiscono ancora oggi sia l’ambiente che le popolazioni locali, come nel caso degli Ikebiri e degli Ogoni. Qui l’industria del petrolio, storica in un paese come la Nigeria, rappresenta la causa principale di conflitti violenti, disastri ambientali e disastri sanitari che sono ormai strutturali. Tale tematica, inoltre, interessa anche l’Italia dal momento che nel 2018 ha avuto inizio presso il Tribunale di Milano il processo civile che vede coinvolte l’ENI, con la sua controllata nigeriana, e il popolo degli Ikebiri. Tale situazione non permette alle comunità locali e alla popolazione civile il godimento di diritti umani fondamentali e le persone coinvolte sono sempre di più costrette alla migrazione, in quanto non vi ci sono più le condizioni per una sussistenza dignitosa. Relativamente al tema delle migrazioni ambientali è possibile richiamare l’ordinanza del 12 novembre 2020 n. 5022 della Corte di Cassazione italiana. In tale occasione la Corte ha riconosciuto ad un ricorrente nigeriano la protezione umanitaria proprio perché“condizioni socio-ambientali” generate dall’azione economica delle imprese petrolifere mettevano in serio rischio la sopravvivenza rendendo impossibile una condizione di vita dignitosa.
Per comprendere il secondo tema del “nazionalismo verde” possiamo volgere lo sguardo verso gli Stati Uniti, l’Unione europea e quei paesi che stanno formulando e adottando i cosiddetti “Green Deal”. Nel 2019 la Commissione europea ha presentato il Green Deal Europeo. In estrema sintesi si tratta di una serie di iniziative e impegni politici volti a trasformare l’Unione europea in una società attenta alle questioni ambientali e che nel 2050 non genererà emissioni climalteranti. Si tratta di obiettivi ambiziosi ma fondamentali per rispettare gli importanti obblighi giuridici sanciti, ad esempio, dall’Accordo di Parigi. Il documento contenente il Green europeo però apre ad una propria modifica in caso di “risposta strategica” ad eventuali avvenimenti. Questo è stato il caso del NextGenerationEU, nato come risposta alla crisi pandemica, e del nuovo capitolo REPowerEU, a sua volta nato in risposta alla crisi energetica.
Nel caso del Green Deal, Daniele Conversi si domanda se questi “accordi verdi” possano essere inquadrati come possibili forme emergenti di nazionalismo economico ancora da teorizzare. Di fatto il passaggio dai combustibili fossili alle energie rinnovabili richiede un grande investimento nella costruzione d’infrastrutture e necessità della cooperazione di tutti i livelli del territorio nazionale, come ad esempio le autorità regionali, provinciali, locali e municipali. In tal senso il discorso nazionalista cercherebbe di enfatizzare la capacità della nazione di affrontare le principali sfide del nostro tempo e di celebrare gli sforzi compiuti nel percorso della transizione energetica. L’autore avverte però che, in generale, i Green Deal rischiano di essere insufficienti ad affrontare la crisi climatica in quanto difendono ancora l’espansione di una qualche forma di consumo o di interessi in controtendenza con gli obiettivi climatici.
Come Large Movements possiamo evidenziare come, in particolare, il REPowerEU risponda a necessità geopolitiche e come questo intenda garantire l’indipendenza dall’energia prodotta dalla Federazione russa. Per affrontare la crisi energetica la strategia prevede misure a breve termine (come i nuovi partenariati energetici, la rapida realizzazione di energie rinnovabili e l’incremento dell’obiettivo di risparmio energetico entro il 2030) e misure da implementare entro il 2027 (come il nuovo capitolo REPower nell’ambito del PNRR e l’incremento dell’obiettivo europeo per le energie rinnovabili entro il 2030 dal 24% al 40%). Questa strategia però prevede ancora una grossa dipendenza dai combustibili fossili, dando la possibilità di aumentare l’approvvigionamento energetico da Paesi come la Nigeria, l’Egitto, l’Azerbaigian e Israele. Ciò rischia di non garantire istanze di giustizia climatica e la tutela dei diritti umani, andando in contraddizione con lo stesso Green Deal europeo.
L’importanza della interdisciplinarietà nella riflessione sui Cambiamenti climatici
Il libro “Cambiamenti climatici. Antropocene e politica” di Daniele Conversi presenta numerosi stimoli e riflessioni ma, soprattutto, è la dimostrazione di come l’interdisciplinarietà sia necessaria per riflettere sui Cambiamenti climatici e alimentare il dibattito su di essi con lo scopo di fornire soluzioni in grado di affrontare tempestivamente la sfida in atto. Cambiare punti di vista e di analisi, mettendoli in dialogo tra di loro, permette di costruire condizioni abilitanti per una reale partecipazione ai processi democratici. Tali processi vanno inoltre ad implementare la qualità della nostra democrazia e la sua capacità nel trovare soluzioni che rispondano, tra gli altri, alle istanze di giustizia climatica. La connessione tra diritti umani, democrazia e cambiamenti climatici è profonda, come Large Movements ci auguriamo che ulteriori studi indaghino questa interconnessione con lo scopo di contribuire ad un avanzamento delle conoscenze sul tema.
Vice-presidente Large Movements APS | Climate Change e Migration Specialist | Dottore in Relazioni Internazionali | Blogger in Geopolitica, Geoeconomia e tematiche Migratorie | Referente LM Environment